Come sta rispondendo l’Italia allo Smart Working forzato? C’è chi è abituato – sono quasi 600 mila gli smart worker – e non ha percepito differenze. Altri invece sono stati catapultati in una situazione sconosciuta: lontani dall’ufficio, separati dai colleghi e in alcuni casi privi di soluzioni digitali adeguate per trasformare la scrivania di casa in una postazione smart. Dagli uni e dagli altri si alza però una voce unanime: “A casa sto lavorando troppo, non ce la faccio più”. Perché? E quali effetti negativi porta il sovra-lavoro domiciliare? Il pericolo principale è il Whole Working.
Cosa significa Whole Working?
Nel mondo aziendale, che si parli di grandi corporate o PMI, c’è stato uno shift culturale: si parla di People Management, di work-life balance e il raggiungimento del risultato con ogni mezzo e ad ogni costo sembra un retaggio antico (almeno dal punto di vista retorico). In sostanza, sembra che il mondo del Business si sia umanizzato, tendendo la mano verso il lavoratore invece di tirarla a sé con violenza. Eppure in un periodo di crisi sanitaria e flessione economica, e proprio nel tanto agognato momento dello “Smart Working libera tutti”, si configura il ritorno ad uno schema del lavoro rigido e irrispettoso della vita privata: così nasce e si diffonde il Whole Working.
Il Whole Working non è altro che la concezione del lavoro sopra ogni cosa: responsabili che operano un controllo costante e asfissiante nei confronti dei dipendenti; attività che si moltiplicano e costringono il lavoratore a superare l’orario d’ufficio; meeting interminabili che ostacolano l’autonomia e quindi l’efficienza del dipendente; reperibilità massima ad ogni ora del giorno e – purtroppo accade – della notte. Whole Working vuol dire lavorare, lavorare e lavorare. Senza limiti di tempo né rispetto della vita privata.
Perché si diffonde il Whole Working durante la quarantena e quali sono i danni sullo Smart Working?
Sono stati giorni surreali, nessuno di noi l’avrebbe potuto immaginare. Ma la società che produce, innova e non si ferma mai ha dovuto bruscamente arrestarsi. Frenare sì, fermarsi mai. E quindi via libera al lavoro in remoto con buona pace del work-life balance.
Durante l’emergenza lucidità e la lungimiranza lasciano spesso il posto alla paura del futuro, così tutto diventa urgente. È necessario affrettarsi a ri-modulare i budget, definire strategie di Crisis Management e ri-pianificare le operazioni dopo che è successo l’imponderabile; ma la psicosi da priorità 1 non può sovraccaricare i dipendenti, pena il rischio di un’isteria per il troppo lavoro da affrontare nelle mura di casa e senza valvole di sfogo all’esterno.
C’è poi il problema della distanza fisica, che viene percepita come un ostacolo alla supervisione: così nasce l’iper-controllo sui dipendenti che si traduce in call seriali e superflue, il cui unico risultato è svilire lo spirito di gruppo e l’indipendenza professionale dei singoli. Lo Smart Working è ben altra cosa.
Durante l’emergenza, il lavoro rischia di diventare l’unico modo per uscire metaforicamente da casa e così assume una centralità dannosa. Si interrompono all’improvviso i momenti di svago con i colleghi, gli hobby extra-lavorativi non trovano più spazio nella routine e così il tempo da dedicare a sé stessi si riduce drasticamente.
Lavorare in remoto può comportare un altro effetto negativo: la casa viene associata ad una condizione di comodità estrema, che porta il dipendente a diminuire la produttività; assegnare innumerevoli task diventa quindi il mezzo per riportare il dipendente sull’attenti (e per smuoverlo dal presunto pisolino sul divano). Così il lavoro invade anche la casa, focolare della famiglia e luogo che deve essere protetto dalle infrazioni di clienti, capi o responsabili.
Lavorare duramene durante lo Smart Working è doveroso, ma occhio al Whole Working
Ripetiamo, ciò che sta accadendo ha del surreale ed è sacrosanto nutrire preoccupazioni per il futuro sanitario ed economico del nostro paese. Ed è troppo semplice applicare l’ottimismo fiabesco codificato dall’hashtag #andràtuttobene. Rispondere prontamente ed in modo efficace all’emergenza è complicato, ripartire sarà ancora più duro e recuperare i danni è un compito degno di Tom Cruise in Mission Impossibile.
Dunque è giusto stringere i denti, resistere ed impegnarsi oltremodo: nella vita personale e professionale dobbiamo lavorare più dell’ordinario per limitare i danni della pandemia. L’Hard Working è anche un atto di solidarietà nei confronti di chi è costretto a superare i propri limiti ogni giorno per curarci e proteggerci come fanno medici, infermieri e forze dell’ordine: il nostro impegno è la migliore forma di rispetto per il sacrificio quotidiano degli eroi ai tempi del Covid.
Il mondo delle imprese deve dare il massimo, ma non per questo è giustificato a invadere la sfera privata del lavoratore: se non possiamo uscire o abbracciare i nostri cari, e al tempo stesso dobbiamo compiere imprese straordinarie, è davvero necessario farsi prendere dal panico e cedere al Whole Working? Non lo è.
Se si parla di Whole Working, c’è più di una ragione: si sta diffondendo questo sovraccarico di lavoro ingiustificato, che si concretizza non tanto nella mole di cose da fare, quanto nel carattere pervasivo, invadente e irrispettoso dell’equilibrio psico-fisico del singolo e della stabilità – già di per sé precaria visto il periodo – della famiglia.
Come prevenire la diffusione del Whole Working e abilitare lo Smart Working
Evitare di sprofondare nel Whole Working è possibile e la prima lezione da imparare è la seguente: non cedere al panico. La paura del futuro comporta un iper-controllo che invade l’equilibrio dello Smart Worker. I manager devono credere nella professionalità dei propri dipendenti: gli imprenditori (soprattutto chi non ha mai abilitato il lavoro agile) non devono preoccuparsi dell’appeal che il divano può avere sui propri dipendenti ma avere fiducia che questi saranno seri e ligi al proprio dovere.
Anzi imprenditori e top manager devono considerare il lockdown come un’opportunità per abbracciare la cultura dello Smart Working che si ispira a principi di libertà, flessibilità ed autonomia nella scelta di spazi e strumenti di lavoro con cui raggiungere i risultati aziendali.
La definizione degli obiettivi e l’organizzazione dei to-do (che siano quotidiani o a lungo termine) devono cercare di rispettare gli orari di ufficio. E attenzione a non rendere ordinarie (o peggio quotidiane) le nottate trascorse di fronte al pc: è vero che il lavoro di Crisis Management richiede tempestività e non ha orari, ma è bene definire un limite.
Nell’ottica della prevenzione del Whole Working, la tecnologia assume un ruolo cruciale: una postazione smart che replica le funzionalità di quella in ufficio, garantisce al dipendente ambiente e mezzi per mantenersi efficiente. La digital transformation è un tasto dolente in Italia: ora c’è l’urgenza di informatizzare il lavoro e speriamo che l’attualità possa stimolare l’innovazione digitale del prossimo futuro.
In conclusione, c’è solo una cosa da ricordare per evitare che il Whole Working prenda il sopravvento: non restiamo a casa per pigrizia ma per dovizia e siamo obbligati a confinare lavoro e vita privata in pochi metri quadri. Siamo sicuri di riuscire a trovare un equilibrio se il lavoro diventa un motivo di ansia invece che uno stimolo? Per noi stessi e per il benessere generale, oggi è più vantaggioso essere un lavoratore “Smart” piuttosto che un Whole Worker.